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Ottenere il marchio alternativo Igp, l’Indicazione geografica protetta per l’arrosticino abruzzese. A rilanciare l’iniziativa è Nunzio Marcelli, pastore ed economista, titolare della Porta dei Parchi in Anversa degli Abruzzi. È infatti in preparazione con il Consorzio agnello centro Italia, di cui Marcelli è presidente, assieme al Gal Centro Italico, il lancio di un marchio alternativo, una certificazione Igp questa volta però di arrosticini prodotti esclusivamente con carne di pecore allevate in Abruzzo, con l’obiettivo di raddoppiare gli attuali 157mila capi sui pascoli, e creare lavoro e una filiera davvero locale. “Le polemiche accese in questi giorni da una battuta di Christian De Sica sul vino abruzzese nel film Natale a tutti i costi, lo definisce “una merda… ”, hanno spinto il presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio, toccato nell’orgoglio, a dire che non era opportuno affermare una cosa del genere sui vini delle nostre terre, per quanto in un film natalizio e di cassetta. Dal canto nostro come operatori del settore zootecnico, in nome degli ultimi pastori e allevatori d’Abruzzo, vorremmo che il nostro presidente usasse il suo peso politico per redarguire chi quotidianamente utilizza carne straniera per produrre arrosticini cosiddetti abruzzesi”- tuona Marcelli.

Passando dunque agli “inceppatori” e all’imminente marchio Igp Marcellli spiega che, “per comprendere a fondo i termini della questione basta consultare il disciplinare di produzione degli Arrosticini d’Abruzzo Igp, che prevede solo carni provenienti da animali di peso superiore a 30 chili. E le pecore abruzzesi? Dal momento che non raggiungono più di 24 chili di peso, vengono di fatto escluse, assieme ai loro pastori – per una scelta della Regione Abruzzo, che quel disciplinare ha avallato – da una produzione che scippa il loro nome. Gli arrosticini, nati dai pastori nei primi anni del secolo scorso, sono così finiti nelle mani dei commercianti dei nostri tempi”. Con buona pace, si può aggiungere della consacrazione della transumanza come patrimonio Unesco, e delle commosse celebrazioni di grandi e storici pastori e straordinari produttori di formaggi, come i recentemente scomparsi, Gregorio Rotolo di Scanno e Giulio Petronio di Castel del Monte.
“Ci sono commercianti che -, prosegue Marcelli, – per giustificare una scelta di convenienza, usano improbabili panegirici attorno alle presunte qualità di carni estere verosimilmente allevate in stalla, di animali che certamente non hanno calpestato i pascoli d’Abruzzo né brucato le loro straordinarie erbe, e ancora una volta si tornerà a pensare ai pastori solo quando ci sarà da allestire qualche presepe vivente”.
Ancora una volta in Italia si ripete insomma ciò che accadde con tanti altri prodotti Igp, che di italiano hanno solo il territorio in cui avviene la trasformazione, mentre le materie prime arrivano da ogni dove, al dì la della retorica del gastro-sovranismo e dei miti del “locale è bello”, della filiera corta e via strologando.
Nulla di cui stupirsi, però: l’Indicazione geografica protetta è un nome che identifica un prodotto anch’esso originario di un determinato luogo, regione o paese, alla cui origine geografica sono essenzialmente attribuibili una data qualità, la reputazione o altre caratteristiche e la cui produzione si svolge per almeno una delle sue fasi nella zona geografica delimitata. A contare è la reputazione, detto maliziosamente, quello che si mette a credere al consumatore finale.
Attualmente sono stati riconosciuti 257 prodotti come Indicazioni Geografiche, di cui 139 prodotti agroalimentari e 118 vini, tutti, a scanso di equivoci, di straordinaria e indiscutibile qualit
à. Ma resta il fatto che con marchio Igp, solo per fare qualche esempio, si producono la bresaola della Valtellina, prodotta però con la carne di zebù, un bovino allevato in Sudamerica, o la burrata di Andria, il cui disciplinare di produzione non limita la provenienza del latte, che non può essere certo tutto pugliese, o i pizzoccheri della Valtellina, dove buna parte del grano saraceno è comprato dall’estero, avendo un costo minore. O anche il lardo di Colonnata, territorio dove non si allevano maiali, che dunque arrivano da fuori Toscana. E si potrebbe andare avanti ancora a lungo.
Da qui il senso dell’iniziativa che vede Marcelli in prima fila, una Igp alternativa, e se vogliamo antagonista, che prevede la produzione di arrosticino davvero abruzzese.
“Una risposta di orgoglio, certo, ma anche ecologica, ambientale e di trasparenza: con il consorzio Agnello del Centro Italia e con il Gal Abruzzo Italico, stiamo lavorando ad un disciplinare e ad una certificazione che mette al centro la materia prima, la carne prodotta da pecore che pascolano in Abruzzo. Si procederà ad un mappatura di tutti i nostri pastori e delle loro aziende, e saranno solo loro i fornitori, e tutto sarà tracciabile, a vantaggio del consumatore finale, che grazie ad un Qr code applicato alla confezione, ed esposto nei luoghi di somministrazione, potrà risalire all’allevamento”.
Per Marcelli la sfida è anche economica, di rilancio effettivo delle aree interne, di cui è da sempre paladino.
“Sui pascoli abruzzesi oggi brucano circa 157mila pecore, iscritte alla Banca dati nazionale. Siamo i primi a dire che non sarà possibile coprire il fabbisogno di un prodotto sempre più in voga, anche fuori dall’Abruzzo, ma la nostra ambizione è quella di stimolare e incentivare la nascita di numerose nuove aziende, grazie alla garanzia della collocazione del prodotto, e del rispetto dell’utilizzo di carne autoctona. Obiettivo ragionevole è poter arrivare a 600 mila pecore al pascolo, quante ce ne erano in Abruzzo negli anni ’50”
Conclude Marcelli: “terminato l’iter burocratico, gli italiani saranno liberi di scegliere tra gli arrosticini trasformati in Italia e gli arrosticini che in Italia nascono, sui nostri pascoli. La carne di pecora abruzzese potrebbe costare anche lo stesso prezzo di quella straniera, che tra l’altro sta aumentando perché fino ad ora non era molto apprezzata da altri mercati internazionali, ma ora si sta affermando, come ad esempio in Irlanda, e poi perché è di molto aumentata la domanda dai paesi arabi. E c’è anche un altro aspetto da considerare: se non siamo noi, nei limiti del possibile, a produrre la materia prima, moltiplicando gli allevamenti, potrà un giorno accadere che gli arrosticini li confezioneranno direttamente all’estero, e agli abruzzesi non resterà nemmeno il ruolo di meri inceppatori”. Restando insomma con lo spedino di legno in mano.

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