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In questa Giornata nazionale della Festa della donna voglio proporvi quest’opera: Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi. Artemisia fu vittima di stupro all’età di diciotto anni ancora da compiere da parte di Agostino Tassi, anch’egli pittore e amico nonché collaboratore di suo padre Orazio e per questo motivo frequentava spesso casa Gentileschi. Invaghitosi della giovane pittrice e approfittando dell’assenza di Orazio, Tassi s’introdusse un giorno di maggio del 1611 nella camera di Artemisia: stava dipingendo al suo cavalletto quando avvenne la violenza; si dice anche che la serva Tuzia non fece niente per evitare lo stupro. Al fatto seguirono vari processi e oltre agli interrogatori e alle torture che dovette affrontare, Artemisia dovette soprattutto subire il disonore (sia nei suoi confronti sia verso la sua famiglia) che la mentalità del tempo faceva abbattere sulla donna vittima, quasi fosse colpa sua. Solo il matrimonio poteva rimediare a questo disonore e inizialmente Tassi aveva promesso di sposarla; i due si frequentarono per alcuni mesi finché non si scoprì che lui in realtà era già sposato, facendo decadere la promessa. Orazio scrisse una supplica nella primavera del 1612 alla corte papale, per denunciare la violenza di Agostino verso la figlia. La vicenda si concluse con la condanna da scontare o con cinque anni di lavori forzati o con l’esilio da Roma: Tassi scelse la seconda opzione, ma rimase fuori dalla città solo fino all’aprile 1613, quando riuscì a farsi annullare la sentenza. Quindi di fatto rimase quasi impunito.

La raffigurazione di eroine come Giuditta che decapita Oloferne è stata interpretata come una sorta di vendetta di Artemisia stessa (e di tutte le donne) verso Agostino Tassi (e tutti gli uomini prepotenti che usano forme di violenza per prevaricare sul gentil sesso). A prescindere dal contesto storico-artistico dell’epoca, la Giuditta che decapita Oloferne è uno dei capolavori più grandi della storia dell’arte di tutti i tempi ed evidente testimonianza di una donna artista indipendente che si fece spazio per le sue alte capacità pittoriche in un mondo prettamente maschile.

Un’opera biografica, una risposta più o meno diretta alla violenza subita da parte di Agostino Tassi o comunque come riflesso di un’elaborazione psicologica del fatto.

Ma ciò che emerge dagli atti del processo, che coinvolge molti altri personaggi, è il fatto che Orazio, più che un padre che protegge la figlia, assomiglia a un padrone: non esita infatti a esporre l’intimità di Artemisia ai giudici, a sottoporla a pubblici controlli ginecologici e alla tortura della sibille, uno strumento in cui le dita del condannato erano stritolate con funicelle, rischiando così di rovinare per sempre anche l’abilità nella pittura della propria figlia.

Un tuffo nel passato per riflettere del presente e sperare nel futuro.

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